
Parlando con un cliente, referente per una piccola ma agguerrita PMI b2b che produce e vende in tutto il mondo, è emerso che – nonostante i buoni risultati e la crescita internazionale lato export – l’azienda non è assolutamente pronta per aprirsi al mondo b2c e con esso a strutturare una comunicazione più moderna, che sfrutti a fondo le opportunità offerte dai Social Media, ad esempio. L’idea del cliente era chiara: “non siamo pronti, forse tra 5 anni…”. Una visione di questo tipo, a mio avviso, è abbastanza miope. Perché rinunciare a costruire un’immagine moderna di sé e dei propri prodotti? Perché evitare di strutturare presidi web che fungano da vero catalizzatore di visite e dunque di potenziali clienti, nuovi mercati e vendite? Questo dato, peraltro, non è sorprendente: una ricerca di Eurostat ripresa da Techeconomy qualche giorno fa sottolinea come questa rinuncia sia un tema molto marcato in Italia, dovuto a svariati motivi. Motivi principalmente legati a un’assenza di cultura pro-comunicazione, di budget (o è una scusa?), ma anche di percezione di inutilità (“noi sviluppiamo business in Fiera”) e, come dice Gianluca Diegoli, di incapacità di espressione e di tone of voice corretto. Ad oggi, essere “Social” per una classica PMI può significare:
- comunicare in maniera più efficace e diretta i propri selling point;
- aprire nuovi mercati (le richieste di informazioni da azienda ad azienda tramite Facebook, per chi “fa Social Media” efficacemente, è cosa ormai acquisita);
- sviluppare un dialogo con il cliente, utile per una più precisa definizione di prodotti, servizi e sviluppi futuri;
- individuare direttamente trend e nuovi sviluppi per il proprio business;
- far crescere lentamente ma progressivamente brand advocates e brand ambassador, che informalmente possono veicolare i valori e i “perché” del brand;
- dare voce anche ai propri dipendenti, incentivando la circolazione del sapere interno all’azienda e trasformando i dipendenti in “ambasciatori” verso il mondo esterno, sui Social Media.
A proposito di quest’ultima voce, però, occorre una liberalizzazione anche dal punto di vista strutturale interno, che in parte in questi ultimi anni sta anche avvenendo, come testimoniato dalla ricerca condotta da Easynet Global Services e Ipanema Technologies negli Usa e in 5 paesi UE (Italia compresa)
In un solo anno si registra un’apertura non indifferente, che pur testimonia una mentalità conservatrice sempre difficile da sradicare in tante aziende italiane (e non). Al termine della chiacchierata con questo cliente siamo arrivati alla vera causa di questa reticenza: la proprietà non è pronta, non si fida, non sa, un passo alla volta… Voi che ne pensate? Qual è la vostra esperienza a riguardo?